
Parte 1: note generali
Uno fra gli argomenti trascurati dalla storiografia sulla Grande Guerra è l’influenza oppressiva, ossessiva e repressiva esercitata dalla giustizia militare ed a cui erano sottoposti i soldati .
Un esauriente saggio è quello di Forcella e Monticone edito da Laterza, “Plotone di esecuzione” uscito per la prima volta nel ‘68 e con numerose ristampe negli anni successivi.
Già il numero dei militari denunciati all’autorità giudiziaria militare è di per sé significativo; considerando in 5.500.000 gli italiani che prestarono servizio nell’Esercito fra il 1915 ed il 1918 ci furono 870.000 denunce. Escludendo da questo numero le 470.000 denunce per renitenza alla chiamata (essenzialmente da parte di italiani residenti all’estero), ed i civili denunciati (arrotondanti a 70.000), circa il 6% del totale richiamato fu denunciato. Chiaramente questa percentuale è destinata ad aumentare se si escludono gli ufficiali (stimati in 300.000), marinai (stimati in 145.000), ma soprattutto limitandosi al solo esercito operante.
Che valore si può dare a questo numero? E’ lecito dare due chiavi di lettura diverse: o la dimostrazione più lampante della mancanza di “credo” nelle motivazioni della guerra da parte dei soldati (e quindi il conseguente atteggiamento di indisciplina e di protesta e, di qua, il ricorso alla denuncia all’autorità militare) oppure la frattura insanabile fra il modo di fare ed agire dei preposti al comando e la truppa. Personalmente concordo con gli Autori che il significato più giusto sia nella fusione dei due estremi succitati.
Sempre basandosi sui grandi numeri, ed escludendo le 50.000 denunce ancora aperte al 2/9/1919, giorno dell’entrata in vigore dell’amnistia voluta dal governo Nitti (vista dalle opposizioni come “un regalo a disertori, disfattisti e traditori”) che sanò quasi totalmente gli effetti delle condanne, lasciando agli arresti solo i reati più gravi e, chiaramente, lasciando insoluta la questione delle 750 esecuzioni capitali effettuate, le condanne furono circa il 65%.
Il 35% quindi delle assoluzioni non deve essere letto come una certa clemenza dei tribunali (riscontrabile solo in una certa qual maniera solo nei processi d’opinione per esempio verso militanti socialisti) ma, piuttosto, che venivano aperti moltissimi processi che non avevano la sussistenza di esistere e quindi, nell’impossibilità di raccogliere prove documentali, venivano necessariamente chiusi con l’assoluzione degli imputati. Valga solo a titolo d’esempio che, nel bando emesso il 14/8/17, dal C.S. si comminava la fucilazione alla schiena come disertore al soldato che ritardasse di sole 24 il rientro al reparto. Questo minimo ritardo se da una parte creava i presupposti della denuncia del ritardatario, la maggior parte dei processi finiva con l’assoluzione dello stesso.
Al momento dell’entrata in guerra il 24/5/15 (e quindi l’instaurazione del tempo di guerra nel quale il potere legislativo nel territorio definito in stato di guerra veniva anche affidato al Comando Supremo o ai comandanti di corpi non in comunicazione con lo stesso), il codice penale vigente era sostanzialmente quello del 28/7/1840 e quindi risentiva di una concezione fortemente antiquata (il militare facente parte di un élite scelta e numericamente esigua, estraniato dal contesto sociale e quindi visto come un’entità sottoposta e leggi e comportamenti etici specifici, quali l’onore ed il privilegio di asservire al bene della Patria).
L’azione del C.S. in materia di giustizia penale, si esplicò durante la guerra attraverso uno speciale ufficio (Reparto Disciplina, avanzamento e giustizia militare) che svolse per conto ed in nome del C.S. le attribuzioni a questi date dal codice penale militare e dal regolamento per il servizio di guerra.
Nel corso del conflitto, il Comando Supremo produsse tutta una serie di bandi (esempio quello di Cadorna del 28/7/1915 per la divulgazioni di notizie fuori dai comunicati ufficiali), circolari, indicazioni, linee guida che, se da una parte spronavano a condanne sempre più pesanti (fino alla pena capitale) dall’altra parte brillavano per l’insufficiente chiarezza, lasciando quindi ai giudici dei tribunali un’ampia soggettività.
Non sembra fuori luogo notare che con l’avvento di Diaz al C.S., nel 1918 non si vede un’accentuata frattura nel modo di vedere la giustizia militare (ricordiamo che ancora si era nella fase in cui veniva ritenuto che la causa di Caporetto fosse stata nella viltà di alcuni reparti …) se non nel ricorrere facilmente alle esecuzioni sommarie senza procedimento. Pur nel continuo ed acclarato disprezzo e diffidenza del Cadorna verso le autorità civili, sentimento questo ricambiato, è utile ricordare come anche l’attività legislativa civile si trovò concorde con quella militare nell’inasprire le pene. Basti per questo ricordare il “Decreto Sacchi” del 4/10/17 che, con le sue disposizioni contro il disfattismo, si trovava in perfetta sintonia con i criteri repressivi delle pene volute dal C.S.
Quindi, nel suo complesso, l’attività giudiziaria assolse il compito voluto dal Comando supremo che, più che di giustizia oggettiva, volle dare alla giustizia militare le funzioni di deterrente rapido, severo, inesorabile ed esemplare, per il mantenimento e completamento della disciplina, oscillando dalla follia sanguinaria del Gen. Andrea Graziani (che girava con al seguito la camionetta dei RR.CC. per eseguire immediatamente le fucilazioni) ad un’acquiescenza dei giudici ai voleri di Cadorna (giudici che, anche loro, furono oggetto di siluramenti e rimozioni).