
Vediamo ora alcuni episodi, non inventati, divertenti ed anche sintomatici del particolare periodo e delle situazioni createsi. Notte di bufera a Vervei, paese di baracche in legno ed anche in muratura, costruito nel bosco tra Pocòl e Passo Falzarego. Da qualche anno è stata riedificata la cappelletta in legno, tale e quale quella che vi era in guerra. Tra gli alberi si notano ancora resti di muri. Durante il periodo bellico questo paesetto giunse a contenere fino a 2000 soldati. Sull’uscio aperto di una baracca, appena illuminato alle spalle, vi è il colonnello Tarditi. Passa, tutto intabarrato, il tenente Venier, 7° Alpini, Battaglione Belluno. Tarditi lo apostrofa: “Non si saluta il proprio colonnello?” Venier, imperturbabile, risponde: “Guardi, io abito lassù sulle Tofane, dove non ho mai avuto il piacere di vederla!” Nessuna replica dal comandante della zona. Tra l’altro giravano delle strofette sul colonnello, composte dai nostri Alpini: “Signor Tarditi, al Castelletto venga lei, invece di guardarlo col binocolo da Vervei”. Cosa questa decisamente impossibile, in quanto il Castelletto di lì non si vede proprio. Ma per la verità Tarditi non fu quello che si può pensare sia stato. Quando il 7° fu trasferito in Friuli – egli aveva già avuto varie promozioni – fu esautorato dal comando, avendo giudicato un’azione programmata dai comandi superiori un inutile massacro per i suoi Alpini.
Per gli Alpini l’aeroplano era il Carabiniere, che non era un nemico, ma semplicemente un pericolo da evitare, anche perché i contrasti erano precedenti alla guerra. Molti Alpini infatti erano stati contrabbandieri. Erano chiamati anche “Teli da tenda”, per via del telino che copriva la “lucerna”, il loro copricapo. Comunque li chiamavano anche “Caproni”, dalla fabbrica di aeroplani, per via sempre della tela grigia e della forma che ricordava due ali. Fu severamente proibito chiamarli così, ma gli Alpini, dotati sempre di fine spiritosaggine, quando li incontravano, si mettevano una mano a mo’ di visiera e seri seri facevano finta di scrutare il cielo.
Siamo alla fine della guerra. In un paese dell’ Alto Adige, conquistato dai nostri, un capitano italiano riunisce tutta la popolazione in piazza e chiede che chi sa leggere e scrivere faccia un passo avanti. Tutti lo fanno e il capitano subito pensa d’esser stato preso per i fondelli. Un vecchietto si fa avanti e gli spiega che è dal 1774 che sotto l’Austria vi era l’istruzione obbligatoria. Proprio come qui in Italia…
Berlese, capitano degli Alpini, si accorge che un soldato abruzzese cammina zoppicando e restando indietro durante la marcia. Gli si avvicina e gli chiede che cosa facesse prima di esser arruolato e che cosa avesse che camminava così male. L’altro gli risponde che faceva il pastore e che gli facevano male i piedi perché li aveva… dolci. L’ufficiale, mentre gli dice che dovrebbe essere abituato a camminare, gli guarda i piedi e si accorge che calza due scarpe… destre. “Fammi vedere le scarpe di ricambio!” E, chiaramente, il pastore tira fuori 2 sinistre!
Marmolada. Un capitano degli Alpini, dopo tanto manzo, sogna per Natale di poter mangiare qualcosa di diverso: un cappone ad esempio, e ogni giorno tormenta il cuoco con la richiesta, che chiaramente non può essere esaudita. Due suoi Alpini pensano di fargli questo regalo e una sera partono con gli sci velocissimi verso Malga Ciapela. Giunti a Sottoguda si avvicinano ad una casetta e mentre uno si dirige verso il pollaio e la stalla, l’altro bussa alla porta. Gli apre un omone sulla cinquantina e l’alpino, a voce volutamente alta per coprire i rumori che giungevano da fuori, comincia a narrare un po’ di tutto di ciò che sta succedendo al fronte, ma soprattutto si dilunga nel riferire che il figliolo del padrone di casa, che è nella sua stessa compagnia, sta bene, si comporta molto bene e che manda ai genitori i più cari saluti. Dopo una mezz’oretta in cui l’alpino non ha lasciato dire una parola ai padroni di casa, bruscamente si congeda. I due tornano all’accampamento dove i capponi (perché erano due) vengono cotti e serviti al capitano che quasi non crede ai suoi occhi. Dopo qualche ora giunge un biglietto indirizzato a Pietro Caldart, sciatore della 77a Compagnia, uno dei due Alpini: “Voglio far sapere a te e al tuo compagno che non ho mai avuto figli maschi all’infuori di due capponi che spero abbiano fatto buona figura presso il vostro capitano. Comunque, bravi, e tanti saluti e buona digestione. Sergente alpino in congedo: Fruttuoso Tognet.
Forcella Fontananegra, tra Tofana Prima o di Rozes e Tofana Seconda o de Inze. Un povero camoscio – ce n’erano ormai pochi lungo il fronte – non trova miglior posto per cercare un po’ di cibo che nella terra di nessuno Chiaramente una variante alle solite scatolette e alle sbobbe loro somministrate faceva gola ad entrambi i contendenti. Immane sparatoria finché la bestia resta cadavere proprio a metà strada tra le due trincee. Sorge il problema di recuperarla, ma ogni volta che vi è un tentativo italiano o austriaco, questo viene frustrato da nuove sparatorie. Di notte gli Alpini precedono gli Austriaci e con una corda riescono ad imbragare il camoscio per le corna e a trascinarlo nelle proprie linee. Ma non tutti se ne vanno dal luogo del recupero e attendono i nemici che non tardano ad arrivare. Grande sorpresa per loro, che si trovano ben presto prigionieri. Condotti nelle nostre linee, non vengono secondo prassi inviati subito nelle retrovie, ma trattenuti lì finché il camoscio non fu ben cucinato e poterono partecipare al banchetto. Boni taliani!
Tarabbio o Tarabion, come lo chiamavano i suoi commilitoni, vista la sua notevole mole, era un alpino di circa 50 anni che si era arruolato volontario. Lui si sentiva come un papà e cercava di alleviare i compiti dei suoi giovani compagni, offrendosi volontario per pattuglie o per prolungati turni notturni di guardia. Quando il capitano Berlese giunse a comandare la compagnia dove vi era Tarabbio, volle subito vederlo e conoscerlo, avendone sentito parlare spesso, ma Tarabbio non c’era. Gli dissero che dal mattino era assente, fuori dalle trincee, verso quelle austriache, dove stava architettando qualche tiro a danno dei nemici. In effetti la notte precedente tre sciatori austriaci erano giunti fin presso le nostre trincee approfittando della tormenta ed avevano lasciato un pezzo di tela con su scritto in tedesco “buona notte”.Per farla breve, Tarabbio, assieme ad una decina di compagni riuscì ad abbattere un pino di circa 15 metri, vi inchiodò in cima una tavola con su scritto: “Questo, oh mangia patate, è il palo di Tarabbio. Domani sera verrò a riprenderlo”. Quando scese la notte Tarabbio riuscì a portare il tronco fin davanti alle posizioni austriache e a drizzarlo verticale. Non vi dico la reazione degli austriaci il mattino dopo: tentarono in tutte le maniere di abbattere il tronco a fucilate, con una mitragliatrice, addirittura fecero sparare un pezzo da montagna, subito messo a tacere perché colpiva le proprie linee, ma niente da fare. Inoltre, fucilate ben aggiustate rintuzzavano i tentativi di uscire ad abbattere il palo. E così venne l’oscurità ed il palo sparì: era stato legato con una corda e Tarabbio e compagni erano riusciti a riportarlo dentro la nostra trincea. Agno Berlese ci ricorda che l’episodio accadde a Forcella Bòs e che nel villaggio poco sotto, presso la vasca che dicesi essere servita per il… bagnetto del maggiore Martini, vi è ancora detto palo. Ma siamo alla fine degli anni ’40 ed io, che passo per di lì almeno dieci volte all’anno, non ho mai visto nemmeno una scheggia di legno. Proverò a guardare meglio.
Ora due esilaranti storielle riportate dal generale Ferruccio Pisoni. Una recluta, alla domanda di prammatica su che cosa facesse da borghese, risponde che faceva “el pitùr” per la sua contrada. “Ottimo – disse un tenente – va benissimo per decorare il sacrario dei nostri caduti”. E così un giorno gli diedero pennelli, carboncini, pentolini con i colori, disegni, e gli descrissero quel che doveva fare. “Ma mi sun pas bon de fè sto travai!” “Ma come, non sei pittore?” “No, mi sun pitùr, i menavo a pasculè i pitu del pais”.
Durante la guerra Pisoni si recò a ispezionare una nuova posizione e in particolare una cavernetta con in fondo una piccola cannoniera per piazzare un piccolo calibro. Inoltratosi in galleria, ad un tratto si accorse di camminare nell’acqua, che oltre a tutto si faceva sempre più alta: alla feritoia gli arrivava quasi alle ginocchia. Chiaramente il piano era inclinato verso l’interno e quindi gli artiglieri avrebbero dovuto servire il pezzo con i polpacci in acqua. Arrivò un tenentino del Genio al quale Pisoni chiese chi avesse scavato la galleria. “Io, signor capitano” – rispose il tenente orgogliosamente. “E che mestiere faceva da borghese?” “L’avvocato, signor capitano”. “Mi congratulo con lei. Per essere un futuro principe del foro ha fatto anche troppo e se ne vanti di aver praticato… un foro nella montagna!”
E per finire una curiosità. Gli Alpini, che già avevano dovuto sopportare l’eliminazione in guerra della penna sul cappello per l’ordinanza di Cadorna – questioni mimetiche – e i Bersaglieri, non volevano assolutamente usare l’elmetto per moltissime ragioni. Eccole. Non potevano metterci la penna o le piume. L’elmetto non teneva assolutamente caldo. Con un po’ di vento, l’elmetto fischiava. Quando faceva molto freddo, se veniva toccato, si ustionavano le mani. Faceva rumore e quando erano in pattuglia, tintinnava. In alta montagna, con la tempesta, si caricava di elettricità. Giunsero al compromesso di usarlo obbligatoriamente quando erano in prima linea.