
I serventi sono subito corsi ai pezzi, alle loro bombarde, che carezzano, ripuliscono, con affettuosità, come se avessero ritrovato, dopo tanti pericoli corsi, una persona loro cara. Così è l’anima semplice del soldato, di quello stesso che è affezionato al podere e all’aratro.
Rimettiamo gli otturatori, scovoliamo per bene le bombarde, e prima di mezzogiorno parte la salva.
Poco dopo arriva l’ordine di cessare il fuoco, e i soldati allora si affaccendano a far pulizia, ad allontanare i morti prossimi, e esplorare le doline, se non vi fossero nemici isolati in insidia.
Quest’ansia di vedere ci prende, ma quale cimitero discoperto ! Non c’è un metro quadro senza un morto. Qui a strada n.8 dove la lotta è stata più tragica, carogne di cavalli si mescolano ai soldati d’entrambe le parti. I ventri gonfi, al sole, già imputridiscono e putono, sicché se non faremo una pronta ed energica disinfezione, morremo tutti infettati.
E quegli otto soldati nemici tutti stesi per un verso, in fila, quasi si fossero disposti a dormire appoggiando il capo sulle gambe del compagno che precede, che cosa significano in così rara positura ? La mitraglia li ha fatti cadere come vili carte da giuoco.
La strada “otto” e le altre sono ingombre, come tutti i punti di cresta intorno a cui si è più combattuto.
E’ la carne, è la carne che si disfa al sole e dice quanto vuota sarebbe la vita se con questo disfacimento terminasse, senza qualcos’altro di eterno.
Ma con questi poveri morti non possiamo aver complimenti: essi devono scomparire al più presto perché si possa ancora vivere.
In questa cappelletta costruita per le messe domenicali il nemico aveva posto un pronto soccorso. Orrore, su tre barelle dormono per sempre i feriti, due dei quali uccisi da una granata che fin lì li ha visitati.
Cadaveri più pericolosi degli altri; chiediamo per telefono abbondante calce, perché le mosche non infettino tutto e tutti. E prima di sera arrivano le squadre per lo sgombro, intere compagnie addette alla bisogna. I morti vengono caricati sulle carrette, a mucchi, e portati lontano. Calce in ogni luogo. Pure, i nostri occhi vedranno ancora sempre lo strazio orrendo.
La sera ci mettiamo in galleria per riposare e dormire, fuori stanno le vedette. Ma nessuna novità s’annunzia nella notte, dopo tanta orgia, che dà al nemico e a noi il bisogno solo di dimenticare.
Senonché, ancora lezzo: donde viene ? Certo un morto fuggito alla rastrellatura, invano uomini in giro ricercano. Ci mutiamo allora in cani da fiuto, tragici bracchi che seguono l’odore nauseabondo. Ma non si vede nulla, e il puzzo è aumentato. Istintivamente alziamo il capo. Dannazione. Legato a un albero, sta un austriaco in decomposizione. Certo una vedetta fermata al suo posto, secondo il metodo vigliacco, di quelli che differenziano noi dal nostro nemico.
Quest’avanzo di carne viene disciolto; si stacca una gamba già crivellata di ferite, la testa pure sta per staccarsi dal busto; infine un rottame viene raccolto, messo in un telo da tenda e portato lontano, lontano alle squadre di sepoltura.
S.E. Federzoni è a Selva, lo vediamo, si congratula con noi della 357^ che è stata anche citata dal Comando Supremo, fra i reparti che si sono più distinti nella battaglia. La batteria del capitano Carretta è stata distrutta, perduta, dal non aver ricevuto l’ordine di ritirata; S.E. ha pregato i vari comandi di reparto di fare delle proposte per medaglie.
Il mio capitano mi confida che ha pensato a me. Gliene sono grato, anche se alle medaglie tengo meno che al dovere compiuto. Ma quando tutto, di tali proposte, sembra bene incamminato, il comandante di gruppo si rifiuta di mandarle avanti, dicendo che abbiamo fatto il dover nostro, e soggiungendo: “Tanto, le medaglie non contano, e anche quella che ho io me l’hanno regalata”.
Le preghiere del capitano lasciano irremovibile il maggiore, e le nostre azioni rimangono sotto il segno comune del “dovere”, neutro d’infamia e di lode.
Da varie cose noiato, chiedo di tornarmene in artiglieria. Vi avevo diritto già dopo 12 mesi di bombardiere, e io ne avevo fatti 18. Il capitano vuole che attenda per andar via insieme, al termine del suo dodicesimo mese. Ma io ostinato. Chiedo la licenza e l’ottengo.
Arrivo a casa che fisicamente sono mal ridotto, tanto che i miei e la fidanzata se ne spaventano. Ma mi sento forte, i nervi sono saldi. Non penso, soltanto, che i gas aspirati abbiano potuto già minarmi, come infatti era; e sull’orlo del precipizio mi avrebbero condotto, come il povero buon capitano Marucci alla morte.
I miei e tutti mi affollano di domande, ma io rispondo come al solito molto semplicemente.
Il Paese lo sento cambiato. Pur traverso nuovi dolorosi lutti esso è fiducioso, sicuro ormai della fine vittoriosa.
Al mio ritorno dalla licenza trovo giù alla riserva a Selva l’ordine di trasferimento in artiglieria.
Lo telefono ai camerati, e dico che prima di sera sarei passato a salutare. Il capitano mi scongiura di non andare dicendo che potevo proprio all’ultimo correre un inutile rischio.
No, caro buon capitano, il tenente Taccola non partirà, checché avvenga, senza tornare su a salutare, ad abbracciar tutti a rivedere la batteria.
Desino, mi riposo, e dopo mi metto in cammino solo, solo, mentre l’attendente mi prepara le cassette per la partenza.
Giungo in batteria, ricevo il paterno affettuoso rimprovero del capitano, e subito ci mettiamo a chiacchierare. A tutti dispiace la mia partenza, ai colleghi e ai soldati. Questa è la mia medaglia.
Prendiamo un caffè, e via, ché altrimenti la commozione minaccia di travolgerci. Bacio i più cari soldati, saluto tutti gli altri, abbraccio gli ufficiali e via di corsa.
Il capitano però vuole accompagnarmi per un po’ di strada. Tirano qualche colpo. Ma sono inezie, tanto, sento, che tutto andrà bene. Camminiamo sulla ormai famosa strada n° 8. Il capitano mi rimprovera ancora, dolcemente, quell’abbandono. Ma il mio pensiero ormai è fissato.
Ci lasciamo. Un abbraccio ancora, un bacio, una lacrima, e ci separiamo. Ma pure ci voltiamo ancora a riguardarci, al modo degl’innamorati, finché è possibile vederci.