Associazione culturale di rievocazione storica

Memorie di guerra di Menaldo Taccola – Puntata 19

Ad un tratto in batteria si precipita un tenente con una mitragliatrice, seguito da pochi soldati. Ci dice che gli austriaci son passati, e che hanno “prelevato” quasi in pieno gli uomini della prima linea; che ora sono lì a poche centinaia di metri da noi.
Non lo crediamo. Ci mettiamo pacatamente a discutere, mentre la batteria prosegue il fuoco, serenamente come se si trattasse di favole. Consigliamo il tenente di piazzare la sua arma sulla cresta della nostra dolina, e così vien fatto. Stendiamo gli uomini a catena con fucili e bombe, e con pochi, che lavorano come negri, continuiamo il fuoco.
Ormai non s’attende che l’urto, il corpo a corpo. E non lo temiamo, anche se saremo sconfitti, soverchiati, annientati, e torturati anche. Perché sappiamo, noi ufficiali, traverso notizie dateci dal comando, quant’odio nutra il nemico per i bombardieri, e il caso del capitano Caretta, medaglia d’oro, sgozzato sul pezzo, informa dell’effettiva esecuzione delle minacce nemiche.
Siamo dunque chiamati all’estremo sacrificio. Nessuno indietreggia, ed è l’ora.
Improvvisamente rotola (è la parola) in batteria, il portaordini del gruppo. Dall’emozione e dalla stanchezza non può parlare: ha traversato zone tanto battute che l’esser giunto fino a noi è un miracolo. Tiene stretto nella mano destra un foglio sgualcito che febbrilmente gli togliamo.
“Ordino alla 357° Batteria di Bombarde di ritirarsi subito che il nemico avanza, sulla linea della corda al posto prestabilito”.
Avverto il capitano, chiamo il collega mitragliere e i soldati, faccio togliere gli otturatori alle bombarde, e via.
Son queste, cose che dopo tredici anni si scrivono con una certa calma, ma allora! La responsabilità, il dolore di dover ancora una volta lasciare le bombarde al nemico, la paura d’un nuovo disastro tipo Caporetto, tutto faceva la mente affaticata, e affollata di pensieri. Rivoltella in pugno, fucili pronti, e ci portiamo sulla linea dov’è ammesso solo di vincere o di morire.
Il nemico, notando il nostro ripiegamento e quello di altri reparti cominciò ad inseguirci a colpi di shrapnel e granate. Corse e soste, battute a terra a ogni sibilo premonitore vicino.
Uno shrapnel raggiunse il gruppo dei soldati che io formavo e vuotò letteralmente la schiena al soldato Loparo, ferendone altri. Accorriamo, ma non c’è niente da fare, togliamo tutto ciò che poteva interessare la famiglia e il comando, il piastrino, il portafogli, lettere, denaro e altro. E via nuovamente di corsa.
Sostiamo in una dolina. Il bombardamento aumentava. Cerchiamo il nostro capitano, non lo troviamo. Morto, o ferito ? O forse inoltratosi su altra strada ? Urliamo più volte disperatamente il suo nome. Risponde alla fine una voce “Son qua”. Corriamo. Ma quegli era il comandante di una compagnia mitraglieri, che attendeva i resti del suo reparto per ritirarsi sulla linea.
Gli spieghiamo brevemente la situazione, che gli austriaci sono vicinissimi, e che restando lì sarebbe stato prelevato senz’altro. Retrocediamo insieme.
La linea della corda non era ancora investita dal bombardamento, perché non ancora individuata. Era stata eseguita con molta prudenza, ed essendo mascherata benissimo dalla vegetazione naturale, era quasi del tutto sconosciuta al nemico che andò a cozzarvi e trovò la sua tomba.
Appena in trincea facciamo l’appello, mancavano oltre il capitano alcuni soldati che forse lo avevano seguito nel cammino errato.
Il capitano dei mitraglieri prende il comando di questa truppa eterogenea, ma disciplinata e disposta a difendere la linea fino al sacrificio. Fanti, artiglieri, mitraglieri, bombardieri, tutti avanzi di reparti decimati e fatti prigionieri.
Ad ogni ufficiale, con un congruo numero di soldati, viene assegnato un tratto di trincea, ove gli uomini, pochi, vengono dislocati in formazione molto rada. Vicino a me viene portata una mitragliatrice, quella salvata, ma le munizioni scarseggiano, tanto per essa quanto per i fucili, come pure scarseggiano le bombe a mano. Occorreva dunque calma di nervi per non sprecare colpi fin che dalle retrovie non fossero giunti rinforzi e munizioni.
Avevamo così disposto il servizio, e le vedette osservavano attentamente nel labirinto boscoso che si stendeva davanti alla linea, quando una grandine di colpi si abbatte su di noi. Vengono feriti alcuni soldati, ma lievemente, e non vogliono abbandonare il posto. Poi il tiro si allunga (nel cielo era comparso un razzo tirato dal nemico) e allora, improvvisamente, sbuca dalla boscaglia un’ondata di pazzi, di ubriachi, di giganti con urla e bestemmie, che vengono correndo verso di noi, chiedendoci la resa. Rispondiamo con un fuoco fitto, preciso, che abbatte alcuni, ferisce molti, e induce gl’illesi a ritirarsi nel bosco. Così era infranta la prima ondata, costituita da truppe d’assalto.
Non abbondando le munizioni, cessiamo il fuoco mantenendoci su una vigile difensiva.
Il tenente mitragliere che aveva mietuto abbondantemente nella prima ondata, ne vede un’altra che sta formandosi per muovere all’attacco: con tre quattro scariche la fulmina, e poi s’abbatte come colpito a morte, sull’arma. Ma non è né morto né ferito, è solo svenuto. La tensione dei nervi lo ha esasperato, e come finito. Il capitano e altri calano giù in trincea, mentre noi vigiliamo con rinnovata energia.
I colpi disponibili cominciano a esser contati: cosa faremo se non arriveranno presto rinforzi e munizioni ?
Fra il verde si vede qualcosa che si muove, che avanza. Che cos’è ? E’ un colosso, un gigantesco soldato che viene risoluto come a una passeggiata, che giunge fin quasi ai reticolati, e gesticola reso ubriaco dall’alcool e dall’attacco, facendoci capire, con un cattivo italiano, che dobbiamo arrenderci. Noi a nostra volta gli urliamo che deve arrendersi lui, altrimenti lo uccideremo.
Il dialogo, fatto più di gesti che di parole, prosegue fra un tambureggiante fuoco d’artiglieria, quando, a troncarlo, parte da un nostro fucile un colpo preciso che raggiunge il gigante il quale urlando cerca di allontanarsi, nascondersi, ma fatti pochi passi cade, a braccia aperte.
Così la guerra. Quell’uomo forse era padre, e il vederlo lì annientato dalle nostre scariche, nella quiete del momento, mi fa male, più male al cuore, di quando nell’orgasmo della difesa abbiamo falciato a decine.
Usciamo per vedere cos’ha indosso questo temerario. Ecco un foglio del loro comando nel quale è detto che questa sarà l’ultima offensiva e dopo verrà la pace vittoriosa, che in Italia troveranno da sfamarsi, che il raccolto è in pieno sviluppo e la pianura appagherà tutte le brame delle truppe che prime avranno sfondato le linee nemiche. Nel tascapane, oltre le bombe a mano, ha delle zollette di zucchero, una fiaschetta con una bibita, che si poteva sentire fortemente alcoolica, e del pane così nauseabondo, che sembra terra rossa impastata.

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