
L’Ortigara è nostro. Padroni della situazione, si corre in avanti, si appresta la difesa, si voltano le trincee, si fanno gli appostamenti per le mitragliatrici, ci si rafforza sul terreno tanto duramente conquistato. Quando le batterie da montagna si avviano sulla cima, io dovrei seguirle, e ho pronta, infatti, la nota degli uomini e del materiale personalmente assegnato a ciascuno di essi, ma un ordine del comando di gruppo c’impone di restare e di vigilare.
Passiamo la notte in batteria fra gemiti di feriti. A un certo momento, non trovo più il capo-pezzo Mazzeo. Dove sarà ? Lo fo cercare, lo cerco io stesso invano. Apparisce dopo circa un’ora. Ha il dorso della giubba tutto cosparso di sangue. Ha portato dentro le nostre linee, raccolti fin di sotto la cima del monte, i feriti. Ma i servizi sanitari sono inadeguati, in tanta strage, e la pietà del mio capo-pezzo è resa vana. Molti muoiono dissanguati, fra lamenti sempre più fievoli. Altri gemono d’aver sete, vaneggiano prima di finire. I camminamenti sono pieni di morti (pietosamente ravvolti dal telo da tenda, la cassa di lusso senza borchie d’oro del combattente), tanto che per portarci da un punto all’altro dobbiamo scavalcar le trincee e correre allo scoperto. A te, caro Mazzeo, che oggi hai finito d’esser consunto dal male che ti prendesti in guerra, io feci proposta di medaglia d’argento: la meritavi !
Scendiamo alla riserva, per una notte di riposo, ma al mattino, appena l’alba, un 305 passa fragoroso sulle nostre baracche e scende nelle retrovie; poi, altri colpi medi e grossi.
Che succede ?
Mentre pensiamo di telefonare in batteria, dal Comando di Gruppo ci avvertono di tornar subito in batteria. (Là erano restati due ufficiali; al baraccamento siamo il Cap. Marucci, comandante – venuto dalla cavalleria e deceduto dopo la guerra a causa dei gas tossici aspirati nel Montello il giugno 1918 – ed io).
Partiamo di trotto, ché ci è stata data urgenza, e c’è un tiro di dannati. Infatti, dopo poche centinaia di metri, un 305 si annuncia. I miei compagni sanno com’è la morte di 305: col suo rumore di treno, esso ci dà il tempo di pensare serenamente al nostro ultimo istante: mentre la mitraglia, la granata di trincea, colpisce prima e poi s’ode, e la morte d’essa è meno tremenda.
Ci gettiamo a terra. Il treno si avvicina, ulula… : uno schianto tremendo che echeggia di valle in valle. C’è andata bene. Ci scuotiamo da terra, scansiamo qualche scheggia che ancora s’aggira nell’aria, e via di corsa, per ripetere le stesse mosse a nuovi tiri. Siamo finalmente in trincea.
Le nostre e tutte le altre bombarde, i cannoni, le mitragliatrici, sparano sull’Ortigara, subito al di là della cima, perché gli austriaci hanno attaccato.
Da Cima Caldiera, Cima Campoluzzo, Cima Undici, arrivano le nostre riserve, ma son prese dal fuoco preciso dei medi calibri nemici. In fila indiana, di corsa, traversano il passaggio obbligato, ma molti sono che cadono – e restano lì abbandonati – mentre gl’incolumi vanno al riparo.
Eroismo di fanti, di uomini che sanno e vedono che la vita è un giuoco, una posta, dovuta al caso, al destino. Vedono i compagni coi quali chiacchieravano un minuto prima delle loro spose, delle loro case, dei loro figli, cadere, e passano oltre risoluti, dove il dovere li spinge a dare ad altri il loro aiuto.
Sublime gesto, sublime sfida alla morte, così, senza tremare. Ma il sacrificio è vano. Molte sono le falle, i rinforzi arrivano decimati. Vien dato alla fine l’ordine di abbandonare le posizioni con tanto sangue conquistate.
Ritirata disastrosa sulle posizioni di partenza: uccisi, feriti, prigionieri. Prigioniere son anche le belle e balde batterie da montagna con le quali poteva trovarsi anche la mia sezione.
Sera triste e paurosa. Nella notte – illune – spariamo sempre, per timore d’un attacco, e i razzi, le bombe e le granate, rischiarano di vivi bagliori la terra e il cielo. Con noi, e dietro, sono gli avanzi gloriosi dei bei battaglioni che andarono all’assalto, ora avviliti. Spariamo tanto, finché le bocche da fuoco troppo calde, dilatate, lasciano cadere le bombe vicino, e allora ci volgiamo all’opera pietosa di trasportare i feriti, e sgombrare il terreno dei morti, che non ci ammorbino l’aria.
Tragica notte, così lontana dalla vita, da non ricordare perché si viva e perché si combatta e si uccida: con l’attesa ansiosa dell’alba, che sorgerà eguale e serena, ministra di una natura insensibile a tanto carnaio !
Trascorsero i giorni, il sole sciolse le nevi; e la famosa batteria dovette in fretta e in furia riempire i suoi sacchetti di sassi e terra, e tutto rifare, fra le matte risate di quanti intorno sapevano la trovata dei sacchetti di neve. Disfatti i camminamenti, ossia le gallerie scavate nella neve – nelle quali io così lungo dovevo camminare come un gatto – , si dove’ lavorare la notte a sfondare più basso, per nasconderci al nemico divenuto nervoso e scrutatore dopo la battaglia.
Infatti, i “cecchini” stavano appostati e tiravano senza misericordia. Un giorno si fermò al bivio tra la nostra batteria e un osservatorio di artiglieria un ufficiale osservatore, che scambiò quattro chiacchiere nel baracchino con noi, e partì dicendoci: “Stasera ceno con voi”. Trascorsi neppur cinque minuti, vedemmo scendere da quella parte un ferito: era lui, che in un passaggio obbligato, scoperto, aveva avuto una pallottola in petto. E la tavola del convito cordiale fu il letto di morte del tenente, che non parlò, ma guardò solo coi suoi chiari occhi verso l’alto e spirò, tra la commozione nostra, più intensa per la fulmineità del caso.
Vi sono state proposte per ricompense al valore, ma non sono state accettate, perché l’esito della battaglia è stato infelice. Anche questa è “buffa”. Come se la mancanza del successo tolga il merito di chi si cimentò con bravura superiore e con ardore di sacrifizio. Che giuochi, anche con queste medaglie ! Nel nostro Gruppo fu proposto un collega che nei giorni dell’azione era in viaggio di ritorno dalla licenza. Nella mia batteria è stato proposto un tenente, perché al suo ritorno a casa vuole avere la medaglia da mostrare alla bimba!… Per me pure, invero, e con molti elogi, è stata fatta la proposta di promozione a tenente… ma a quest’ora ho già raggiunto i limiti d’anzianità.
Questi cattivi giuochi indisposero molto il combattente. Come indispose la confusione che fu voluta mantenere del distintivo unico di “zona di guerra”, che ricoperse indistintamente la gente al fuoco e quella delle remote retrovie padane.
Le giornate trascorrono calme. I morti hanno la loro sepoltura, i feriti, pur con fatica, sono stati portati giù tutti, e ormai non si crederebbe che su questi monti solo pochi giorni fa sia stato l’uragano: tanto spreco di vite, tanta lotta furibonda, tant’orgia di sangue… Solo, fra le due linee, appaiono i cadaveri che non furon potuti togliere, o sotto i reticolati, o in qualche valloncello, o su una roccia sporgente. Qualche volta il vento ce ne porta il tanfo, come a ricordarci che anche noi avremo, prima o dopo, quella fine, e che la vita terrena è carne che infine si dissolve e pute; e che nulla resterebbe, se non ci fosse l’anima a sublimare gli atti, i sacrifizi e a farne la luce del ricordo !
A turno, dormiamo nei ricoveri di batteria, dai quali al mattino si esce stanchi, e gialli in viso, per l’umido che tocca le ossa, e per l’aria mefitica, che conserva le esalazioni dei corpi che non conoscono da tanto né acqua né sapone.