Associazione culturale di rievocazione storica

Memorie di guerra di Menaldo Taccola – Puntata 6

Dopo settimane e settimane di lavoro incessante la postazione della batteria poteva dirsi finita. Quattro pezzi erano riuniti, e sarebbero stati comandati dal Ten. Giordano (comandante della batteria), due pezzi erano postati lontano circa 4-500 metri, e perciò autonomi nel tiro.
Le riservette per le bombe avevano richiesto il maggior lavoro, per essere scavate nella roccia viva, con brillamento di mine fatto nella notte; i ricoveri degli uomini, invece, eran fatti alla meglio, dandosi la prima cura alle munizioni.
Il mascheramento e il defilamento della batteria si presentavano un po’ difficili; lavorammo perciò accanitamente, con piccone, pale e mine, per il meglio possibile. Alla fine, un bel tipo di capitano, il comandante di una batteria sorella, ci fa un’osservazione: “Il vostro lavoro andrà bene per le riservette, ma pel defilamento non avete voluto far presto e con poca fatica !” Noi in coro: “Come sarebbe, questo presto e bene, con poca fatica !” “Semplicissimo. Io, per defilare e proteggere la mia batteria, le ho messo davanti dei sacchetti “a terra” pieni di neve !”. La risata fu generale. Ma egli volle farci costatare de visu il superbo lavoro, né valsero le nostre reiterate risate, e i suggerimenti, per dissuaderlo da quella stupefacente fiducia nei sacchetti di neve. Fu la favola del settore, ma pur ridendone, il cuore ci si stringeva nel pensiero che a una tal testa erano raccomandati degli uomini.
In batteria eravamo quattro gli ufficiali. Io ero il “pivellino”, come bombardiere, e per questo mi si gettò subito allo sbaraglio, affidandomi la sezione staccata. Uno di quei leggeri amorosi “sfottimenti” con cui ci si soleva far pagare il noviziato.
Venne il giorno dell’azione. Per la prima volta mi trovavo al comando di bombarde, e solo. Non ero né commosso né agitato (ché nei momenti di maggior pericolo, per temperamento, m’aiuta la calma), ma tuttavia compreso della mia missione non lieve.
L’azione nacque sotto cattiva stella. La truppa, superstiziosa come le anime semplici, diceva che l’azione sarebbe andata male perché comandata da un generale che portava “scalogna”; per cui, quand’era nominato, le mani correvano alle stellette o ad altri punti dell’esterno, per lo scongiuro.
La notte precedente avvenne l’ammassamento delle truppe, quasi tutti alpini. Battaglioni da’ nomi sonanti di care vallate, battaglioni di bei figlioli coraggiosi, robusti, tenaci, fedeli come le loro montagne.
Calmi, erano, e anche fieri di poter dimostrare che gli alpini non tornano indietro.
Quando l’alba s’annunziò nel cielo sereno cominciò il bombardamento, coi grossi e medi calibri. Passavano sulle nostre teste, con rumore di treno, i grossi, con sibilo gli altri, filando al bersaglio. Musica infernale.
L’Ortigara, Val dell’Agnella, e tutte le cime vicine e lontane fumigavano come se all’improvviso, dalle viscere della montagna, si fossero aperti de’ crateri vulcanici. La preparazione d’artiglieria doveva essere intensissima e breve per non dar tempo al nemico di eseguire spostamenti; l’obbiettivo era sfondamento e accerchiamento, un colpo d’ariete verso Trento e giù, nella valsugana. Azione, come si diceva, di grande stile, in cui venivano impiegati come massa d’urto da sessanta a settanta battaglioni d’alpini risoluti a tutto.
Noi bombardieri avevamo il compito di distruggere i reticolati, quelli che si frapponevano tra le fanterie nostre e le nemiche, in prima, in seconda linea, dovunque si vedessero e si sospettassero. Il lavoro dei nostri pezzi permetteva l’avanzata. Prima che s’escogitasse quest’arma tanto semplice e tanto potente, che col sol boato lacerante terrorizzava il nemico, le nostre masse d’assalto erano state costrette a quei passaggi obbligati che già tante vite erano costate, aperti com’erano con lavoro di pinze e scoppi di gelatina, spesso micidiale ai valorosi.
Testimone e partecipe delle battaglie del ’15 nel Trentino, dell’Ortigara nel ’17, e del Montello nel ’18, io so come e quanto si sarebbe avvantaggiata la nostra azione da un uso meno tardivo delle bombarde !
Distruggemmo, dunque, mettendo nel nostro compito tutta la capacità e la sete della vittoria; spianammo la strada agli alpini, che attendevano silenziosi. L’artiglieria aveva battuto le trincee di prima e seconda linea, e le retrovie, e gli appostamenti di mitragliatrici; il nemico non aveva risposto.
Sembrava che col nostro tiro avessimo incenerito ogni cosa, di là, e che nessuno più vi vivesse. Ma quante volte fummo vittime di questa illusione ! Un uragano di ferro e di fuoco che si rovescia intensissimo, per ore e ore, su una ristretta zona delle faccia terrestre, dovrebbe aver livellato tutto, disfatto uomini e cose, e invece… ci son caverne a prova di 305, ci son gallerie, camminamenti coperti, da cui alla fine escono uomini armati, mitragliatrici intatte, che contrastano all’avanzata.
Qualche volta, in tali casi, bisogna tirare ancora, e colpire insieme nostri e nemici, per evitare un attacco a rovescio !
Il tiro dell’artiglieria è discretamente preciso, ma non puntualmente preciso: si sa infatti che cos’è la “rosa di tiro”. Se ogni colpo avesse ucciso un uomo, la guerra sarebbe finita presto per mancanza di materiale.
Più aperta la rosa di tiro delle bombarde, ma nonostante questa sprecisione, la zona di reticolati assegnataci a bersaglio riesce sempre letteralmente fusa.
E s’avvicina l’ora del balzo. In quella, allungheremo il tiro per formare la così detta zona d’interdizione, per impedire cioè, al nemico, l’afflusso di riserve nelle prime linee.
Il cielo finora sereno lascia scendere un nebbione fitto, uno di quei nebbioni così comuni in alta montagna, che in un momento chiudono la vista su tutto e poi a un nuovo spirar di vento si tiran su come un frettoloso velario, restituendo la scena.
Gli alpini profittano della nebbia per saltar fuori dalla trincea, non visti. Avanzano così coperti. Giunti presso la linea nemica, pronti al balzo travolgente, il velario si leva ed essi appaiono al nemico.
L’occhio conserva ancora la visione tremenda.
Le mitragliatrici iniziarono il loro fuoco profuso, crepitò la fucileria, i cannoni raddoppiarono l’intensità, e da quel cimitero uomini armati si ergevano spinti da una volontà inflessibile: noi, d’avanzare, essi, di difendersi.
Capirono, quindi, i nostri, che solo conveniva appostarsi, e così fecero, attendendo gli effetti di una nostra ulteriore azione di fuoco. Intanto i feriti gemevano, quelli men gravi tornavano indietro, e il terreno era ingombro dei belli alpini che vi avevano trovato la gloria e la tomba.
Noi allunghiamo il tiro, e con un nuovo balzo impetuoso, val dell’Agnella è sorpassata, la cima dell’Ortigara può dirsi presa. Rimane un uomo solo lassù, che dietro il riparo di sacchetti a terra spara, non visto, sui nostri. Dalla mia sezione si osserva la tragica scena. Allora il mio attendente, Salerno Antonio, afferra il fucile, mira calmo, e con colpo preciso abbatte l’ultimo ostinato difensore del monte.

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