
I soldati dopo il lavoro girano qua e là nei boschi, pei prati, sui dirupi: sembra d’essere, in questa attesa di battaglia, in villeggiatura anziché alla guerra.
Il soldato Poli, per cogliere stelle alpine da mandare alla fidanzata, sdrucciola e precipita nel dirupo sottostante sfracellandosi !
E’ il primo morto, morto per amore anziché di guerra. Con rischi tremendi, i volenterosi riescono a trar su il cadavere del compagno che sotterriamo nel luogo scelto pel nostro cimitero, con una semplice croce di legno che ne dice il nome e la causa della morte.
Nella batteria il povero Poli aveva un fratello (avevano chiesto d’essere insieme), ma dopo la disgrazia questi chiese subito d’essere trasferito, perché il luogo ormai gli era insopportabile.
Così, su questa coppia amorosa è caduta la prima falce del destino.
L’offensiva è ormai imminente. Il capitano dopo tanto richiedere ha ottenuto un telefono. Chiede pure del filo in abbondanza, ché per l’azione lasceremo l’osservatorio di Monte Toraro, per essere in linea con la fanteria che andrà all’assalto. Gli altri comandanti di batteria non se lo sognano di lasciare i loro osservatori, ma il nostro così vuole, e così sia.
Andiamo a dormire (ma chi dormirà questa notte ?) presso gli alpini che faranno il primo balzo verso le undici domattina. Il capitano entra in un baracchino e non ne esce; io e un altro soldato restiamo nella trincea. La notte è serena e di una chiarità come hanno solo le notti di montagna. Le stelle sono più grandi e più lucenti; tutto tace e tutto è musica dell’infinito, che, sopra noi, forse commisera le lotte degli uomini e piange le giovinezze eroiche che in tanta serenità si preparano a morire.
I bravi e bei figli della montagna, gli alpini, son già equipaggiati per l’impresa. Fucile, cartucce in quantità, tascapane con bombe a mano, e pochi bagagli, per piombar meglio sul nemico e inchiodarlo !
Previsioni buone. Gli alpini fidano molto nel nostro appoggio, e nella vicinanza del nostro capitano che potrà dirigere il tiro con molta precisione.
Alba limpida. Iniziamo il bombardamento violento delle posizioni da conquistare. Le trincee sono colpite in pieno, e saltano in aria, tutta la terra è sconvolta e sussulta. Il nemico tace. Anche i reticolati in qualche punto prestabilito son rotti (vi sono batterie a questo designate), e così sono aperti dei varchi per l’assalto.
Ci comunichiamo l’ora ufficiale; alle undici precise la truppa uscirà e la nostra artiglieria allungherà il tiro.
Siamo postati, col telefono, dov’è ammassata la truppa per la prima ondata. Il nostro tiro va bene, e gli ufficiali e i soldati alpini sono contenti di noi e ci ringraziano. Il Maggiore comandante del primo battaglione che va all’assalto è ilare, fiducioso, contento.
Gli alpini, senza esclusione di grado, bevecchiano: così andranno avanti con più gas e meno pensiero !
Sono vicine le undici, quando il nemico comincia a tirare, e un colpo scende dietro la collinetta che ci defila, scoppia con schianto tremendo, abbatte quattro cinque soldati.
Urla, gemiti, imprecazioni; accorrere di portaferiti; quindi le file si rinserrano. Forse i vivi pensano che i morti han già finito di patire.
“Fuori !” urla il maggiore, e tutti, come spinti da molla, corrono verso i reticolati e le trincee nemiche. Ma allora succede ciò che nessuno di noi s’aspettava, ma che gli austriaci sapevano, siccome ammaestrati da un anno di guerra. I nostri fanno ressa ai posti di passaggio aperti nei reticolati, e allora scariche tremende di mitraglie li accolgono, ne fermano l’impeto, li falciano a decine, finché la truppa sgomenta s’arresta, ondeggia, retrocede !
La prima ondata s’è franta come un’onda sugli scogli !
Il capitano della nostra batteria si stringe al telefono, dà notizia dell’attacco fallito al comando di Gruppo, e alla batteria dà ordine di riprendere il bombardamento sulle trincee di prima linea.
I feriti non è possibile soccorrerli; chi può, di loro, ritorna verso le nostre linee, e chi non può, muore !
Dopo mezz’ora di nuovo bombardamento ci portiamo col telefono ancora più avanti, a circa cento metri dalle trincee nemiche, e ci cacciamo in un buco di roccia nel fianco del monte. Vediamo benissimo correr gente nei camminamenti, portar via feriti, mentre insistiamo nel fuoco di distruzione. Intanto la nostra truppa si è riordinata ed è pronta al nuovo attacco.
“Allungate il tiro!”, telefoniamo al Gruppo e alla Batteria. La truppa esce e avanza sotto la cortina di fuoco che la protegge, urlando ferocemente. Ma le mitragliatrici riprendono il loro gracchiare tremendo, e falciano. Tuttavia la nostra ondata sta per passare i reticolati.
Allora il nemico concentra il fuoco d’artiglieria sulle trincee. Ivi si mescolano in lotta furiosa i nostri e i loro; il tiro celere e preciso tutto pesta, avvolge, sommerge.
Dopo breve attesa, vien dato l’ordine di ritirata. Gli avanzi dei baldi battaglioni, trasfigurati dalla lotta, ridotti a misera cosa, fanno pena. Ormai, la battaglia è perduta, e occorre mettersi in difesa vigile e pronta, riprendendo il fuoco sulla prima linea, per non essere
attaccati e superati dal nemico.
Il mio capitano è tristamente pensoso. Non dice parola. Quanti uccisi ? Molti. E molti ancora, di lì, invocano soccorso, che non potranno avere se non a notte alta, se mai l’inferno si quieterà, avendo il nemico ripreso il suo bombardamento intenso.
Dalla trincea avversa, pur fra il bombardamento, si sporge una testa, che sembra sorpresa di vedere un telefono così scoperto e vicino alla linea. Io sono solo in questo buco, tanto è piccolo; il capitano è dietro di me a pochi passi, ma defilato alla vista. Un colpo, corto. Un
altro, un po’ più lungo. “Ci sono !” dico tra me. Il capitano, che ha udito, mi urla “Taccola, vieni via !”. E io mi butto giù, scivolo. Son lontano di pochi metri, quando, al terzo colpo, la cassetta del telefono salta in aria. Il capitano accorre, credendo la mia sorte compiuta; non mi vede, urla. Io rispondo da una buca di proietto, e corro a ripararmi dietro la collina.
Scendiamo alla batteria prima che si faccia buio pesto, con negli occhi la visione di uomini lanciati a una conquista impossibile. Il capitano è triste, molto triste. Queste giovinezze immolate senza risultato fanno un malessere strano. La testa è vuota, il corpo fiacco, la volontà assente.
Non odo ciò che dice agli ufficiali di batteria il mio comandante, ma certo racconta. Infatti, a un tratto mi chiama. “Hai avuto paura, di’ la verità, Taccola.” “Paura? Ero pronto al passo. Cosa vuole, così in vista. Ma è andata bene, ecco tutto”, soggiungo spiccio come son solito.
La nostra batteria ha avuto un pezzo saltato durante il fuoco celere, ma senza morti né feriti.
Riceviamo ordine di portarci tutti in linea, coi fucili e le bombe a mano, lasciando i pezzi alle sentinelle, perché in nottata s’aspetta un attacco di sorpresa senza preparazione d’artiglieria.
Partiamo, nel buio. Ci assegnano il compito. Mettiamo le vedette, e ci tuffiamo nei camminamenti e nelle trincee.
Io trovo un buchetto e mi addormento saporitamente; tanto che quando apro gli occhi è già l’alba. E l’attacco ? Non è stato nulla.
Anzi, la notte è stata insolitamente tranquilla.
Che tu sii benedetta, o alba! Tu disperdi gl’incubi, e ci consoli, dopo notti di spasimo e di dolore. Qualche volta, la tua luce porta nuove azioni d’offesa e di morte, ma pure, si è più disposti al sacrifizio, più che nelle notti chiuse e tenebrose!
Ritorniamo alla batteria, e subito chiediamo il cambio del pezzo scoppiato e del telefono “scassato”.
Ormai siamo all’autunno, e fra breve, su questi monti, non saranno possibili che scaramucce, ché la neve impedirà spostamenti grandi di truppe.
Vien ordine di fare ai pezzi delle coperture, in modo che possano sparare anche in mezzo alla neve.
Ci mettiamo tutti alacremente al lavoro per sistemare la postazione, e benché l’impresa, a 1700 metri, non sia facile, riusciamo nell’intento.
Arrivano i viveri di riserva; viene stabilito il turno di chi deve restare in batteria e chi scendere a Verona.