
Comprendiamo che se non avremo l’ordine di ritirarci sarà finita.
Verso sera arriva per mano l’ordine di ritirarci subito alla riserva in Gorizia, e dopo a Lucinico, al di là dell’Isonzo, ove già s’era trasferito il Comando di Gruppo.
Poco prima, la batteria sorella, da 240, che era dietro di noi, ci aveva regalato un paio di bombe in batteria (cosa che succede sovente per la dilatazione delle bombarde) uccidendo soldati, annientando un nostro ricovero e incendiando una riservetta. La nostra postazione, quindi, era un caos indescrivibile, quando arrivò l’ordine di ritirata.
Facemmo affluire i feriti al di là del fiume, lasciammo i morti insepolti, portammo via le bombarde e facemmo saltare le riservette delle munizioni.
Giungemmo affaticati alla riserva. La città era vuota e da un momento all’altro si poteva essere presi prigionieri. Non vi era tempo da perdere.
Il capitano Marucci ci volle offrire qualcosa per ristorarci, ma il corpo era stanco, l’anima in pena, e la mente non concepiva il perché di questa ritirata, che per noi era incomprensibile.
Credemmo di doverci stabilire al di là dell’Isonzo e in questa fede ci preparammo a eseguire l’ordine che non ammetteva discussioni.
Gorizia era deserta come un cimitero, tutti erano andati via, e noi ci avviammo con infinita tristezza al ponte. Siccome sparavano, facemmo passar prima le carrette una per volta al trotto, poi gli uomini e il resto dei muli.
Al di là subito del fiume trovammo riunito il Gruppo: il maggiore ci disse di gettare nell’Isonzo tutti i vestiari di scorta e quanto potesse appesantire e ingombrare nella marcia. Meravigliati domandammo ove si sarebbe andati: “A Lucinico troveremo a notte il treno che ci porterà indietro, ma dove non so”. Io per alleggerire il bagaglio e gettare a fiume il superfluo, chiesi – ammaestrato da casi consimili – l’ordine scritto; ma poiché il superiore s’inquietò a questa mia pretesa, decisi di non distruggere e di non abbandonare nulla, ma di portar tutto con me fin dove e come potessi. E lo dissi.
Giungemmo a Lucinico. Il Gruppo aveva imbandita la mensa, con minestra calda e altro. Da 24 ore noi ufficiali e soldati delle batterie eravamo digiuni né il tempo libero né la voglia avevamo, nell’orgasmo della ritirata, così imprevista e impensata, di consumare i viveri di riserva. Detti ordine ai soldati di rifocillarsi con quel che s’aveva, ricordando però di non consumar tutto, perché l’avvenire era molto oscuro.
Poi andai al Comando di Gruppo per sapere qualcosa, ma mi si disse di attendere pazientemente, ché sarebbe dovuto giungere il treno da Cormons.
Quando vidi i colleghi del Gruppo al termine della loro cena, quietati nello stomaco, io chiamai in disparte il mio collega aiutante maggiore e con risolutezza e ardire – quella sicurezza che viene dall’adempiuto dovere – gli osservai che non era quello il comportamento, di fronte ai colleghi delle batterie. Mi fu risposto che si credeva avessimo già consumata la nostra mensa, e si scusò. Ma io protestai che avremmo d’ora in poi pensato da noi stessi.
Il treno non arrivava, e d’ogni parte il cielo si colorava d’incendi. Erano riserve di munizioni che saltavano, postazioni che sparivano, bocche da fuoco che venivano distrutte. Tanta mestizia, e una pena accorata, ci dava questo spettacolo; andavano in nulla le conquiste per cui erano occorse tante giovinezze. E come avremmo potuto riprenderci, risorgere e vincere ?
Chi non disperò, infatti, trovandosi nel gorgo della ritirata ?
Al passare di un camion, il Maggiore lo ferma e ci dice: “Per attingere notizie vi precedo col camion, raccomando a Lei capitano Vichi il comando del Gruppo”.
Questo episodio dovemmo riferire più tardi, interrogati dai comandi superiori, quando si era saputo che il maggiore, non più riapparso, s’era trovato – uno sbaglio di strada – caldo caldo, nelle mani degli austriaci.
Dunque la ritirata fu compiuta al Comando del Capitano Vichi, che appena trovatosi con quel po’ di responsabilità sulle spalle, guardando verso Cormons ci osserva: “Ragazzi, brucia anche la stazione di Cormons. E noi aspettavamo che ci venisse il treno ! Via in marcia, svelti, che non si resti prigionieri.”
E così anche per noi ebbe inizio quella tragica odissea che si chiamò “Caporetto”.
Prima dell’inizio della ritirata, quando ancora in batteria attendevamo ordini, assistemmo ad un duello fra un aeroplano tricolore e uno nero crociato che aveva sorvolato le nostre linee, a bassa quota, mitragliandole. Dalla pianura era sopraggiunto, presto e veloce, il nostro caccia, che era piombato sul nemico sgomento, a bersagliarlo. E quello era sfuggito portandosi più in alto, così da poter mitragliare il nostro. Tutti noi della terra eravamo usciti a veder la lotta straordinaria, come elettrizzati da tanto spettacolo, incuranti del pericolo. Grande era l’ansia di vedere il tricolore vittorioso; ma come non si schiantò il nostro cuore a vederlo calare giù, giù, come ferito, mentre l’avversario si faceva a inseguirlo, sicuro, come falco avido di preda di cui già gusti il sapore. Era una finta. Con moto fulmineo il nostro dà pieno ritmo al motore, che lacera l’aria; s’impenna e spara; spara a bruciapelo sul nemico sorpreso; sorpreso e vinto dall’audacia e dall’astuzia dell’aviatore italiano. Ché una vampata infatti si sprigiona dal cuore dell’aeroplano nemico, e un corpo rotola giù, che andrà a sfracellarsi contro la terra. Il velivolo scende anch’esso fumando, e quando tocca il suolo è un braciere ardente.
Il nostro aviatore dopo due tre giri di evidente soddisfazione se ne ripartì veloce verso la pianura.
All’aspirante Pescarmona, serio, coraggioso, tenace, affidai le carrette con le bombarde e tutti i muli, mentre io tenni la truppa, che doveva essere continuamente rigirata in questo caos che cominciava.
Marciammo tutto il giorno, la notte e il giorno dopo, senza soste e senza tentennamenti. La sera del secondo giorno, sfiancati, affamati, sostammo. Avendo la riserva con noi, potevo disporre di due muli regolarmente sellati, ma sin dal principio m’imposi di camminare a piedi, con gli uomini, che avevan bisogno di esempio.
Poterono riposare in un cascinale, ebbero un fienile: e parve loro di riposare in un letto di piume. Noi ufficiali ci gettammo su letti e fummo subito addormentati, tanto la stanchezza ci toglieva la memoria del pericolo, della responsabilità, della vita stessa. Avevo rifiutato il cibo, così triste e affaticato com’ero, e soprattutto umiliato di questo andare di gregge senza causa certa, ignari della gravità del disastro; e accettando solo del caffè avevo dato disposizione che quattro ore dopo fossimo in ogni modo destati per riprendere la marcia.